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La Gazzetta dello Sport

(23/08/2017)

Affari, flop, litigi e un amore finito. Il ritorno di Sabatini nella «sua» Roma

«Eravamo in ritiro. Un giorno entrai in camera di Di Bartolomei e vidi sul suo comodino “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij. “Lascia perdere, Walter – mi disse subito – non è roba per te”. Io lo guardai e scoppiai a ridere: “Vai a quel paese Agostino, quel libro l’ho già letto da anni». Questo aneddoto che lega Walter Sabatini al capitano di una generazione giallorossa, sembra quasi una sorridente metafora del karma particolare che incombe su quello che ora è divenuto il plenipotenziario del mercato dell’Inter di Suning, dopo essere stato per 5 anni il «dominus» della Trigoria statunitense prima di dimettersi (con ruggini). Come con Di Bartolomei, forse per intuizioni e senso del bello Sabatini è stato spesso davanti a tutti, ma tutto questo non lo ha mai messo al riparo dalle bufere. D’altronde, chissà se lo ha mai voluto perché, per carattere, la sofferenza in qualche modo lo attrae in modo ineluttabile.

I SUOI RAGAZZI – Per questo non ci sorprenderemmo di scoprire che, se l’Inter sabato sbancasse l’Olimpico, lui sarebbe scosso da un brivido. Comprensibile. Quella che avranno davanti i nerazzurri, infatti, è praticamente la «sua» Roma. Del presumibile undici titolare, infatti, solo due giocatori non hanno a che fare col suo mercato: De Rossi (in giallorosso prima del suo arrivo) e Defrel. Certo, ci sarebbe anche Kolarov, ma la sua «estraneità» è solo parziale, se si pensa che il d.s. – alla Lazio – lo acquistò nel 2007 dall’Ofk Belgrado per 800.000 euro per poi cederlo al ManCity nel 2010 per 18 milioni.

LE PLUSVALENZE – Ecco, le plusvalenze sono state sempre il suo biglietto da visita anche alla Roma, dove ha messo a posto i conti alla proprietà Usa anche a costo di rinunciare ai gioielli. Da Marquinhos a Benatia, da Lamela a Pjanic, la lista dei rimpianti è lunga, ma mai quanto quello che resta il suo peccato più grande: non avere vinto niente nella Roma («è il mio cruccio»). Pallotta, comunque, sarà stato soddisfatto per il fatto di aver preso un club patrimonializzato per 34 milioni lasciandolo a circa 200, nonostante il d.s. abbia ammesso: «Più del 50% del centinaio di giocatori che ho preso non erano da Roma, ma in quel momento erano funzionali».

LUI E PALLOTTA – Per questo Sabatini ha confessato: «Ho creduto che la Roma potesse essere la mia». Invece non lo era, e così il rapporto col vertice è entrato in crisi, sopratutto nel momento in cui il d.s. ha avuto la sensazione di essere stato commissariato. L’addio è stato freddo, e quando il presidente gli ha ricordato che, nel gennaio 2016, non voleva Spalletti in giallorosso (ma perché puntava a Conte per giugno), Sabatini ha risposto con durezza. «Auspico che la Roma possa ribadire classifica e introiti con i calciatori acquisiti dalla nuova gestione, permettendo a Pallotta di continuare ad inebriarsi dell’idea di se stesso e della sua presidenza». E poi ha aggiunto: «Nessuno vuole riconoscenza, ma equità sì. Meglio lasciare perdere Pallotta: le sue sono parole inutili, buttate lì, in stato confusionale». Idilliaco non è stato neppure il rapporto con Totti, che avrebbe voluto far smettere un anno prima. «E pensare che mio figlio Santiago va a dormire con la maglia di Francesco addosso», ha ricordato. Come dire, c’è ancora un Sabatini con la Roma sulla pelle. E allora chissà se adesso Walter ricorda una frase che disse poco prima dell’addio: «Quando sarò morto, vorrei essere ricordato come direttore sportivo della Roma». Difficile. A pensarci bene, d’altronde, anche queste assomigliano a memorie dal sottosuolo.

M. Cecchini


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