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La Repubblica

(13/01/2021)

Henrikh Mkhitaryan “La mia Armenia ferita nel silenzio del mondo”

Sorrisi leggeri e pensieri profondi. Henrikh Mkhitaryan ha scelto di raccontarsi senza filtri, affrontando anche la questione del conflitto tra l’Azerbaigian e la sua Armenia.
 
Mkhitaryan, qual è il suo primo ricordo legato al calcio?
«E’ legato a mio padre Hamlet. Era attaccante, andò a giocare in Francia e lì ho iniziato a seguire le partite. E’ morto quando avevo 7 anni: quando si ammalò siamo tornati a Erevan e lì sono andato a scuola calcio».
 
Ha iniziato a giocare per lui?
«Sì, lui è stato il motore della mia scelta, il mio idolo e la motivazione per cui ho iniziato a giocare».
 
Nel grande calcio invece l’ha portata Klopp, a Dortmund. Che rapporto avete?
«Per me è stato quasi uno psicologo. Ero molto severo con me stesso, per un errore potevo chiudermi in camera e non parlare con nessuno per due giorni, o staccare il telefono. Mi ha aiutato a raggiungere un maggiore equilibrio, a capire che se hai dato tutto, un errore non conta. Con lui ho giocato al mio livello massimo».
 
C’è un aneddoto che vi lega?
«Prima di una partita con l’Eintracht, durante un esercizio sui tiri in porta, mi sfidò: “Se fai più di sette gol ti do 50 euro, sennò me li dai tu”. Ovviamente non feci sette gol e gli diedi i 50 euro. Ma il giorno dopo in partita segnai due gol e allora gli dissi: “Mister, ora me li ridai quei 50 euro”. E’ stata l’unica scommessa che ho fatto in vita mia».
(...)

Lei per motivi politici non ha potuto giocare la finale di Europa League 2019 a Baku: da armeno non sarebbe stato al sicuro.
«La Uefa dovrebbe sempre garantire la sicurezza di tutti i giocatori. Una finale europea è l’occasione di una vita, a volte l’unica che ti capita. E saltarla per motivi di sicurezza è davvero doloroso, come dolorosa è la guerra tra Armenia e Azerbaigian. E’ un diritto di ogni calciatore giocare al sicuro in ogni paese, soprattutto se ospita una finale europea».
 
Il conflitto del Nagorno Karabakh è scoppiato un anno prima della sua nascita: che peso ha avuto nella sua formazione?
«Non sono molte le persone che mi capiscono perché poche persone si sono trovate in situazioni simili. Da piccolo non capivo molto, ma poi ho studiato, e ho visto cose dolorose. E’ incredibile che nel XXI secolo capitino cose del genere, una guerra che dura da trent’anni. Fa male pensare ci siano prigionieri in Azerbaigian, sottratti alle loro famiglie da anni e anni».
 
Si sarebbe aspettato maggiore sostegno dal mondo del calcio?
«Quando è esploso il conflitto mi hanno chiesto di convincere altri calciatori a esporsi con un messaggio di sostegno all’Armenia. Ma io sono contrario a chiedere a persone che non conoscono la storia del Paese di prendere posizione. L’ho fatto io, ma solo con appelli alla pace, nient’altro».
 
Cosa l’ha convinta?
«Era importante che il mondo si svegliasse, che qualcuno facesse sentire la propria voce. Molti hanno preferito non essere coinvolti. Ringrazio il governo italiano per il sostegno, anche Matteo Salvini, anche se la mia non è una preferenza politica. E grazie a chi ha riconosciuto l’indipendenza dell’Artsakh (repubblica proclamata dagli armeni in Nagorno Karabakh)».
 
L’Europa potrebbe fare di più?
«Mi aspettavo di più da tutto il mondo. Ovunque vedo Paesi in lotta permanente, spesso per motivi non del tutto chiari. Ma piuttosto che andare a fondo della situazione, il mondo preferisce restare in silenzio».
 
Da qualche giorno la Roma ha sensibilizzato i Roma Club a mettere a disposizione la loro rete per aiutare il popolo armeno.
«Sì, è fantastico ed è stata una iniziativa spontanea. Hanno colto la sofferenza della gente e si sono impegnati per dare un contributo. Non finirò mai di ringraziarli».
(...)
 
Cosa ha pensato quando le hanno detto “vai alla Roma”?
«Era una possibilità per dimostrare di poter ancora giocare bene. La Roma ha creduto in me, si vede da come gioco che qui sono felice, no?».

Quindi rinnoverà il contratto?
«Non c’è stato tempo di parlarne, in pochi giorni abbiamo avuto l’Inter e ora la Lazio. Presto ne parleremo».

Da quando sono arrivati i Freidkin è cambiato qualcosa?
«Sono sempre vicino alla squadra, ma il fatto che Pallotta non ci fosse mai non deve essere un alibi. Dobbiamo essere pronti ai cambiamenti, che sia il modulo o il cambio di società».

A proposito: dal cambio di modulo la squadra è più continua.
«Ha dato più fiducia ai giocatori, se vedi anche in campo come giochiamo, proviamo cose insieme. E sì, l’allenatore capisce meglio di tutti se cambiare formazione o no».

Venerdì giocherà il suo primo derby: ha studiato quelli passati?
«Non mi piace guardare partite vecchie, ho sentito parlarne i compagni, ma non servono molte parole peer spiegarlo a un calciatore Siamo pronti per una battaglia».

Sa che quando è arrivato i tifosi hanno registrato una canzone per lei sulle note di ‘Felicità’ di Al Bano?
«Sì (ride), qui la sento ogni giorno».
 
E Al Bano ha anche cantato al suo matrimonio, a Venezia.
«E’ stato un regalo dei genitori di mia moglie, non lo sapevo: l’ho saputo solo quando era già lì».
 
La Serie A è come la immaginava?
«Penso sia sottovalutata. In Inghilterra dicevano che il livello era calato molto, ma un campionato non si giudica solo per il numero degli spettatori: da subito ho notato una qualità in campo molto elevata».
 
Mourinho e Gattuso hanno criticato l’uso degli smartphone negli spogliatoi: a lei dà fastidio?
«Sì, mi dà fastidio. Con la squadra stiamo provando a metter via i telefoni quando siamo nello spogliatoio o a tavola, ma non possiamo dire alle persone cosa fare. Oggi ci si parla di meno nella vita reale, si fa tutto col telefono».
 
Ha mai pensato nel proprio futuro a un impegno politico?
«Non sono sicuro di volermi impegnare in politica, non penso di esser portato. Ci sono molte cose che vorrei fare a fine carriera ma non ho le idee chiare, non so neppure dove, quindi per ora penso al calciop oi si vedrà: che sia politica o altro».
 


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