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(01/10/2025) A.S. Roma

Koné: Roma unico club a credere in me un'estate fa, è un dovere ricambiare. Obiettivi? Europa League e arrivare tra le prime 4

Manu Koné ha rilasciato un'intervista al Corriere della Sera. Il centrocampista della Roma ha trattato diversi temi, tra cui alcuni momenti della sua carriera, retroscena di mercato e obiettivi della squadra giallorossa in questa stagione. Ecco le sue parole.

"La verità è che siamo tutti figli della nostra storia. Se oggi sono questo, è per la tibia che mi fratturai a 15 anni. I medici mi dissero che c'era il rischio di non tornare al meglio. Ma eccomi qui: quella ferita mi ha reso più forte".
 
Come ha fatto a rialzarsi?
"I miei compagni andavano in Nazionale e io neppure camminavo. La difficoltà era vedere la mia famiglia triste, è stato complicato più per loro che per me. Ma lo dico senza arroganza: ho sempre avuto un carattere forte, mi ha salvato quello".
 
Che vuol dire il primo posto della Roma?
"Si sta bene, lassù. Per questo lavoriamo. Non esaltiamoci. Ma l'anno scorso eravamo partiti male e poi l'abbiamo pagato alla fine".
 
Fuori dai denti: dichiari l'obiettivo.
"Arrivare tra le prime 4 e vincere l'Europa League: dobbiamo essere ambiziosi".
 
Una cosa per cui Gasperini è diverso dagli altri.
"Lui è tante cose. Non ho mai visto nessuno vivere la partite così. E come se fosse in campo. E ti viene voglia per forza di lottare per lui".
 
Quanto è stato davvero vicino all'Inter in estate?
"Se un club come l'Inter si interessa a me, per me è positivo. Ne parlai con Gasperini, gli ho detto che non sapevo cosa sarebbe successo. Ma ho aggiunto: "Finché indosso questa maglia, lo faccio al 100%". La Roma è l'unico club che ha creduto in me un'estate fa, è un dovere ricambiare".
 
È arrivata qualche telefonata da Sommer e Thuram, ex compagni in Germania?
"Ci abbiamo scherzato su. Mi hanno detto di fare la scelta migliore, ma non dipendeva da me. Io stavo molto bene alla Roma, non è che volessi a tutti i costi andarmene".
 
Niente Inter, dunque. E nel 2021, niente Milan: come si fa a dire di no a Paolo Maldini?
"Parlai con il Milan, è vero. Mi chiamò Massara, ma per la mia crescita è stato giusto andare al Borussia. Poi qui alla Roma ho ritrovato lo stesso Massara: il cerchio si è chiuso comunque, no?".
 
Un giorno lei disse: "La mia forza è non sentire la pressione". Come fa?
"Io non mi stresso mai prima delle gare, che sia contro una squadra più debole o una molto forte. E sa perché?".
 
Prego.
"Vede: la partita è la parte più gioiosa del nostro lavoro, ci alleniamo tutta la settimana per giocare. E perché rovinarla con lo stress? Tanto vale divertirsi rispettando i consigli dell'allenatore. Ma questo non vuol dire non essere esigenti: io non sono mai felice di una mia prova, anche se col tempo sono diventato costante: prima giocavo bene una settimana e quella dopo no".
 
Però le mancano i gol.
"Arriveranno, so di saperli fare e devo migliorare. Ma il punto è che, con tutto il lavoro che dobbiamo fare noi centrocampisti, capita di arrivare stanco davanti alla porta e di sbagliare".
 
Lei allena la mente?
"Alleno tutto. Da 2 anni lavoro con una nutrizionista, Cecile Capdeville: lei parla col mio cuoco qui in Italia e si assicura che io abbia i pasti migliori per restare in forma, senza massa grassa o sovrappeso. Ho anche un coach personale che vive con me. Poi ho un fisioterapista, un preparatore atletico e anche uno mentale. È il lavoro invisibile, importante tanto quanto quello in campo".
 
Lei è cresciuto a Villeneuve-la-Garenne, banlieue di Parigi. Non dev'essere stato sempre semplice...
"Avevo 4 anni nel 2005, con l'ondata di proteste. Ricordo che se ne parlava in famiglia. Ma non ho mai avuto problemi particolari. Neppure col razzismo: i miei genitori sono arrivati lì dalla Costa d'Avorio, come loro la maggioranza degli abitanti. E mi hanno sempre insegnato il rispetto. La mia è una famiglia numerosa, piena di calore: ho 4 sorelle e 2 fratelli più grandi, sono il penultimo di 7 figli. Quando torno, se c'è da andare a fare la spesa, vado io".
 
Tema: Nazionale. Svolgimento a lei.
"Da casa, se mi affaccio vedo Saint-Denis. Quando da bambino andavo a scuola col treno, ogni mattina guardavo e sognavo di giocare lì dentro. E successo a marzo: sono venute 30 persone, le stesse che sognavano con me".
 
Pogba è ancora l'idolo?
"Modello, non idolo. Lui insieme a Serge Aurier. Paul, per noi ragazzi di banlieue, è stato un simbolo. Ogni tanto ancora oggi mi metto lì e osservo i suoi video".
 
La passione più grande?
"La moda. In Germania facevo ogni tanto qualche follia, ora mi sono calmato".
 
A quando le treccine giallorosse?
"Ci ho già pensato, in realtà l'ho anche fatto, anche se il colore è svanito subito. Sì, adoro giocare con stile".
 
La sua esultanza con la bandiera è diventata un cult.
"Nelle gare importanti bisogna lasciare il segno, con la Lazio lo era. Ho messo la mia maglia sulla loro bandiera. Qualcuno l'ha presa male, ma resta il derby".

Più severo Gasp o papà?
"L'allenatore è il primo che ascolto dopo le partite. Ma è più dura con mio papà: a volte non rispondo perché so che la telefonata durerà a lungo...".
 
Tra 10 anni sarà felice se...?
"La prima domanda che mi farò sarà: "Mi sono divertito?". Il calcio deve restare un piacere. Poi, certo, a questo livello si cercano i trofei. Ma io vorrei che un giorno si dicesse di me che ho dato tutto e che ho scritto una bella storia".

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